Il binomio smartphone – social ha reso una pratica ordinaria lo scatto di foto che immortalano momenti quotidiani della vita di ognuno di noi e la conseguente pubblicazione sui social. Nel mondo della fotografia finalizzata alla condivisione sui social, un ruolo peculiare deve essere attribuito al “selfie”, autoscatto realizzato con la fotocamera puntata verso sé stessi che mira ad essere postato sui social network.
Un’interessante ricerca condotta da Chen, Mark e Ali (2016), ha esplorato gli effetti positivi dello scatto di foto sul benessere emotivo. Il campione, formato da 41 partecipanti, di età compresa tra i 18 e i 36 anni, ha scattato delle foto, ogni giorno per quattro settimane, in tre diverse condizioni sperimentali: un selfie con un’espressione sorridente, una foto di qualcosa che li avrebbe resi felici o una foto di qualcosa che avrebbe reso felice qualcun altro. I risultati delle interviste realizzate a sole tre settimane dalla partenza dello studio, dimostrano come i partecipanti all’esperimento della condizione “selfie” abbiano mostrato un sorriso gradualmente sempre più spontaneo, un netto miglioramento del tono dell’umore e di riduzione dello stress, maggiore autostima e fiducia in sè stessi e disinvoltura davanti all’obiettivo. Minori livelli di soddisfazione, seppur un benessere generalizzato, sono stati rilevati nelle altre due condizioni.
Ma quanto questa pozione magica della felicità può essere pericolosa? Quali sono i rischi che si celano in un’azione apparentemente innocua e quali sono i processi psicologici sottostanti?
Occorre fare luce su una triste verità: i riconoscimenti e gli apprezzamenti che provengono dalla community virtuale rischiano di diventare la fonte esclusiva da cui attingere per incrementare la nostra autostima: ansia ed eccitazione accompagnano la pubblicazione di una foto, nell’attesa di vedere quanti like e quanti commenti sono accumulati, come vero e proprio sinonimo di apprezzamento. Ritengo che l’effetto che questo processo possa avere sull’immagine che abbiamo di noi stessi, sia effimero, inconsistente e passeggero, al punto tale da poterci rendere dipendenti da un comportamento compulsivo che mira a mantenere alto il livello di appagamento e gratificazione che ne deriva.
In un editoriale del 2017 intitolato “Selfie addiction”, Singh e Lippmann affermano che le dinamiche psicologiche sottostanti alla produzione di selfies, sono strettamente legate a tratti di personalità peculiari e che un eccesso di tale comportamento rischia di esplodere in dimensioni patologiche. Secondo un altro studio, condotto da Kaur e Vig (2016) è stata trovata una forte relazione tra la dipendenza da selfies e diversi disagi psicologici come scarsa autostima, narcisismo, solitudine e depressione.
Il selfie è divenuto, ormai, un vero e proprio spazio di comunicazione, strumento di narrazione semplice e immediato che ha effetti positivi sul nostro benessere psicologico, ma anche effetti deleteri derivanti da un possibile utilizzo eccessivo e smodato. Si tratta di trovare un equilibrio tra quello che può essere mostrato e quello che deve essere difeso e custodito, di mettere un confine tra ciò che si ha di intimo e ciò che è pubblico, senza cadere nella trappola in cui, per il bisogno di apparire perfetti, ci si mostra al mondo nel modo in cui si vuole essere visti, rendendo l’immagine di sé più importante del vero sé.
Bibliografia
Chen, Y., Mark, G. & Ali, S. (2016). Promoting Positive Affect through Smartphone Photography. Psychology of Well-Being, 6(1).
Kaur S. & Vig, D. (2016). Selfie and Mental Health Issues: An Overview. Indian Journal of Health and Wellbeing, 7(12).
Singh, D. & Lippmann, S. (2017). Selfie addiction. Internet and Psychiatry.